Il deficit di recettori H2 nella patogenesi della schizofrenia

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 04 marzo 2023.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La patogenesi della schizofrenia rimane ancora indefinita, nonostante si siano acquisite nel campo della fisiopatologia nozioni estese dall’ambito neurochimico a quello strutturale, dal livello sinaptico a quello delle grandi reti neuroniche dell’encefalo. La stessa genetica che, dal tempo delle analisi di associazione del Psychiatric GWAS Consortium Coordinating Committee (2009) si è arricchita di una quantità enorme di dati sui geni di rischio, non ha fornito le indicazioni dalle quali si sperava di ricavare la ratio di processi paradigmatici per l’eziopatogenesi di alterazioni probabilmente eterogenee in termini molecolari, cellulari e di sistemi neuronici, ma accomunate clinicamente da alcuni capisaldi sintomatologici.

Per quasi mezzo secolo l’ipotesi della dopamina ha dominato la ricerca sulle basi cerebrali della psicosi schizofrenica ma, quando è definitivamente tramontata questa congettura costruita ad hoc in gran parte a motivo dell’efficacia dei primi neurolettici ad azione anti-dopaminergica, è risultato ben presto evidente che, pur in misura diversa, tutti i sistemi neurotrasmettitoriali sono interessati. Per effetto dei risultati che man mano sono emersi dalle osservazioni sperimentali, vi è stato nel tempo uno spostamento dell’attenzione, ad esempio, dai sistemi colinergici a quelli glutammatergici, che costituiscono nel loro insieme i neuroni eccitatori più rappresentati nel sistema nervoso centrale.

Sono state studiate molecole di trasduzione del segnale intracellulare, perché ridotte nella schizofrenia; numerose proteine strutturali e funzionali del neurone sono risultate deficitarie; il ruolo della glia è considerato da molti di essenziale importanza nello sviluppo del quadro neuropatologico. A lungo le alterazioni dei neuroni GABAergici, ossia gli interneuroni inibitori più rappresentati nell’encefalo[1] dove costituiscono anche in assoluto la classe funzionale neuronica più numerosa, sono state considerate con attenzione in funzione patogenetica; poi è parso evidente che le alterazioni GABAergiche sono effetti “a valle” di un’alterata neurotrasmissione eccitatoria mediata dal glutammato, particolarmente al livello dei recettori NMDA.

Nonostante l’evidenza di un interessamento esteso e diffuso a tanti elementi e sistemi molecolari, oggi l’opinione prevalente attribuisce un ruolo eziologico chiave alle alterazioni dei recettori NMDA del glutammato, ma lo sviluppo di farmaci glutammatergici, in corso da decenni, si sta rivelando impegnativo e problematico. I farmaci per il trattamento della schizofrenia, anche se a ogni nuova generazione di molecole presentano miglioramenti, lasciano ancora molto a desiderare sia per la percentuale di casi nei quali sono pienamente efficaci, sia per gli effetti collaterali indesiderati che ne limitano l’impiego. Per questo, continuando a esplorare nuove possibilità di target molecolari, si è riconosciuta l’importanza dei recettori istaminergici presenti sui neuroni glutammatergici.

Qianyi Ma e colleghi hanno studiato, nella schizofrenia, il deficit dei recettori dell’istamina H2 sui neuroni eccitatori rilascianti glutammato e presenti nella corteccia prefrontale mediale. A differenza dei recettori H1, per i recettori H2 il ruolo è tutt’altro che definito, e il team cinese in questo studio dimostra che possono avere una parte importante nella patogenesi e, pertanto, potrebbero essere bersaglio di nuovi farmaci potenzialmente in grado di modificare il decorso del disturbo.

(Ma Q. et al., Histamine H2 receptor deficit in glutamatergic neurons contributes to the pathogenesis of schizophrenia. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi: 10.1073/pnas.2207003120, 2023).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Pharmacology, the Second Affiliated Hospital, Key Laboratory of Medical Neurobiology of the Ministry of Health of China, School of Basic Medical Sciences, Zhejiang University School of Medicine, Hangzhou (Cina);

Negli anni recenti i casi di schizofrenia o psicosi schizofrenica sono cresciuti in Italia ma, nella nostra esperienza, sono aumentati anche gli errori diagnostici costituenti nell’attribuire questa diagnosi a persone affette da disturbi più lievi e spontaneamente reversibili, che non necessitano di impegnative terapie croniche con farmaci antipsicotici e, soprattutto, non evolveranno mai con compromissione invalidante delle abilità cognitive.

Una delle cause di questi errori da noi individuata[2] consiste in una insufficiente preparazione in semeiotica psichiatrica e in una esperienza molto limitata e non guidata e supportata dal diretto insegnamento di professori esperti nella diagnostica differenziale; applicando con superficialità i criteri del DSM-5 senza la giusta competenza per riconoscere i sintomi principali, accade che stati di profondo turbamento reattivo ricorrenti possano essere scambiati per una psicosi acuta. Ad esempio, delle distorte percezioni che rientrano nel campo delle illusioni (interpretazioni alterate degli stimoli percettivi) accade che siano considerate allucinazioni (percezione in totale assenza dello stimolo o oggetto percettivo), e dei ragionamenti apparentemente poco fondati, pretestuosi o rivendicativi e reiterati siano interpretati come deliri. A questo si aggiunga la scarsa capacità di analisi diagnostica del linguaggio e dello stile psicomotorio, e si comprende come accada che la diagnosi di schizofrenia si attribuisca a persone che non ne soffrano affatto.

Per inquadrare nella conoscenza clinica, a partire da alcuni cenni storici, il problema del rapporto tra la neuropatologia e l’emergere delle manifestazioni sintomatologiche, riporto qui di seguito una mia recente introduzione all’argomento già proposta in precedenza:

“La schizofrenia, che interessa l’1% della popolazione mondiale, costituendo una delle maggiori cause di disabilità mentale, è la più grave delle alterazioni psichiche che accompagnano l’intera vita di un paziente psichiatrico, dall’esordio in età giovanile o all’inizio dell’età adulta fino alla morte, di dieci anni più precoce della media nella popolazione generale. La concettualizzazione di questo disturbo come malattia delle mente si deve al grande nosografista tedesco Emil Kraepelin che, prendendo le mosse dal caso di uno studente brillante diventato inabile per i compiti cognitivi più semplici dopo la comparsa dei sintomi, identificò un piccolo gruppo di pazienti con un simile decorso caratterizzato dalla perdita dell’intelligenza e, per questo elemento che gli parve caratterizzante, propose la definizione diagnostica di demenza praecox.

Era dunque ben presente l’aspetto relativo al limite cognitivo, poi per decenni trascurato, soprattutto per l’influenza delle teorie psicodinamiche sulla genesi del disturbo, che attribuivano a conflitti inconsci lo sviluppo di un funzionamento mentale aberrante e non all’alterazione del fondamento neurobiologico cerebrale, necessario anche per i più elementari processi di estrazione di significato dai messaggi verbali, oltre che per induzione, deduzione, riconoscimento di nessi di causalità e vincoli condizionali.

Lo stesso Eugen Bleuler[3], che introdusse il termine “schizofrenia” per indicare la frequente scissione (schizo-) nello psichismo e, in particolare, la separazione del tono affettivo ed emotivo dalla cognizione espressa nella comunicazione, aveva ben presente il difetto intellettivo che peggiorava col progredire della malattia.

A quell’epoca, l’opinione degli psichiatri era concorde nel ritenere questo quadro psicopatologico la conseguenza di una malattia del cervello con una forte base genetica, e caratterizzata da un processo patologico che si supponeva diffuso nel parenchima cerebrale, con particolare compromissione della corteccia, ritenuta la base dei processi intellettivi. L’unica possibilità esistente a quel tempo di studio del cervello consisteva nell’osservazione necroscopica e nel prelievo autoptico di campioni di tessuto cerebrale, per lo studio istologico.

Gli stessi padri fondatori della neuropatologia, Nissl, Alzheimer e Spielmeyer, condussero ricerche istologiche post-mortem sul cervello di pazienti schizofrenici, descrivendo apparenti alterazioni che si rivelarono incostanti e non caratterizzanti[4]. In particolare, nel 1897 Alzheimer segnalò una scomparsa locale di cellule gangliari negli strati esterni della corteccia cerebrale; Klippel e Lhermitte (1906) descrissero zone di demielinizzazione focale, il cui reale valore di reperto istopatologico fu contestato, molto tempo dopo, da Adolf Meyer e poi da Wolf e Cowen. Anche Buscaino in Italia (1921), capostipite di una famiglia di neurologi illustri, compì studi neuropatologici sulla struttura del cervello schizofrenico, descrivendo formazioni a grappolo, che si rivelarono poi artefatti di preparazione del tessuto. Josephy (1930) descrisse una sclerosi cellulare e una degenerazione grassa degli strati corticali, che non trovarono riscontro in altri studi. Bruetsch, nel 1940, credette addirittura di aver rinvenuto dei focolai reumatici nell’encefalo psicotico; sicuro della bontà e significatività del reperto, postulò un ruolo eziologico per la febbre reumatica.

Nel 1952 Winkelman riscontrò nel cervello schizofrenico una perdita diffusa di neuroni, ma furono sollevati dubbi circa la significatività del reperto che si ritenne potesse essere stato generato dalle procedure istologiche impiegate. Allora, nel 1954, Cécilie e Oskar Vogt[5], per superare questo problema, allestirono uno studio che prevedeva un’accurata indagine seriale degli emisferi cerebrali mediante sezioni sottili dello spessore di 8 μ in uno studio controllato, in cui i reperti istologici dei cervelli dei pazienti erano comparati con identiche sezioni del cervello di persone non affette da psicopatologia e decedute per cause non cerebrali alla stessa età. I Vogt trovarono in tutti i cervelli schizofrenici alterazioni assenti nei cervelli sani, anche se la localizzazione, l’aspetto istologico e la densità variavano da un caso all’altro. I tre reperti principali dei Vogt furono cellule colliquanti (Schwundzellen), degenerazione vacuolare e liposclerosi.

Negli ultimi decenni, dopo oltre cinquanta anni durante i quali la concezione neuropatologica della schizofrenia è stata abbandonata in luogo di teorie eziologiche psicoanalitiche, relazionali e comportamentali, si è tornati su più solide basi, fornite dalle metodiche di neuroimmagine, dalla nuova genetica e dalle scoperte di neurobiologia molecolare e neurochimica, a concepire le psicosi schizofreniche come conseguenza di alterazioni del cervello[6]. Dalle differenze nel metabolismo cerebrale, nell’espressione dei recettori, nelle dinamiche sinaptiche, negli equilibri fra sistemi neuronici, nelle funzioni degli astrociti, fino a quelle emerse dallo studio delle connessioni secondo i metodi del campo specializzato della connettomica, si dispone di un’imponente raccolta di dati che individua le basi cerebrali di una fisiopatologia, che non potrebbe essere spiegata nei termini obsoleti della ‘reazione maggiore’, contrapposta alla ‘reazione minore’ costituita dai disturbi d’ansia”[7].

In passato, insieme col nostro presidente, ho affrontato il problema allora emergente dell’alterazione della funzione talamica nella schizofrenia[8]/[9].

A proposito dell’aver a lungo trascurato in psichiatria i sintomi cognitivi della schizofrenia, che poi hanno indicato importanti vie alla ricerca delle basi neuropatologiche, due anni fa ho proposto questa osservazione:

“La cultura che voleva caratterizzare anche la distinzione fra la neurologia, come la branca medica che si occupa di ictus, epilessie, tumori, traumi cerebrali, e così via, e la psichiatria, che si occupa di ansia, fobie, attacchi di panico, depressione e disturbi con deliri e allucinazioni, sollecitava l’attenzione sui sintomi “propriamente psichiatrici” della schizofrenia, perché non si cadesse nell’errore di considerarla una “demenza precoce” come era accaduto nell’Ottocento. Probabilmente, questa enfasi eccessiva ha portato a trascurare per molto tempo la considerazione e lo studio sistematico dell’indebolimento cognitivo”[10].

In realtà, nella clinica psichiatrica del disturbo schizofrenico si distinguono sintomi positivi, quali deliri e allucinazioni, sintomi negativi, come l’anaffettività e il negativismo, e sintomi cognitivi, quali disorganizzazione del pensiero, linguaggio soggettivo o inappropriato, deficit di attenzione e memoria, senza contare le frequenti stereotipie di moto.

Per introdurre alle interpretazioni neuroevolutive dei sintomi della schizofrenia correntemente adottate dagli psichiatri, mi rifaccio a un mio articolo del 20 marzo 2021[11]:

“Due anni fa ho ricordato un modello neuroevolutivo della schizofrenia[12] attualmente oggetto di insegnamento in molte facoltà mediche di tutto il mondo e proposto per la prima volta da Keshavan nel 1999: durante l’embriogenesi noxae evolutive portano alla displasia delle strutture costituenti alcune specifiche reti neuroniche, causando in tal modo i segni premorbosi cognitivi e psicosociali; durante l’adolescenza, un’eccessiva eliminazione di sinapsi determina un’iperattività dopaminergica fasica e precipita la psicosi. Keshavan nota che, dopo la manifestazione clinica della malattia, le alterazioni neurochimiche possono condurre a processi neurodegenerativi.

Il motivo del successo di questo modello è dato dal ‘sostegno’ ricevuto da numerose evidenze sperimentali. In realtà, si tratta di una ricostruzione ragionevole e coerente con i dati dai quali è stata desunta, e nulla esclude che sia corretta; tuttavia rimane troppo generica rispetto all’esigenza di capire perché e come le ‘noxae’ causino una displasia responsabile di quei sintomi precoci e perché si determini una perdita di sinapsi che causa iperfunzione dopaminergica[13][14].

Ritorniamo ora all’argomento dello studio qui recensito.

Le evidenze sperimentali emerse dagli studi più recenti indicano nei neuroni eccitatori segnalanti mediante glutammato della corteccia prefrontale il sistema neuronico maggiormente alterato nella schizofrenia e, in particolare, un’ipotesi molto accreditata considera il deficit della trasmissione glutammatergica mediata dai recettori NMDA un fattore di primaria importanza nell’eziologia del disturbo. Una regolazione di queste cellule rilascianti glutammato che ha attratto da tempo l’attenzione dei ricercatori è mediata da recettori dell’istamina (H). Come è noto, nel sistema nervoso centrale, il recettore istaminico prevalente e più studiato è il recettore H1, mentre il recettore H2 è meno rappresentato e meno indagato, ma recentemente si sono valutate delle possibilità di ruolo che richiedono studi approfonditi.

Il gene del recettore H2 umano è sul cromosoma 5 ed è espresso tanto nei neuroni quanto nelle cellule della glia; questo recettore ha solo il 40% di omologia con H1. Il recettore H2 nel cervello di cavia è abbondante nella corteccia cerebrale, nel corpo striato e nel nucleo accumbens; al contrario, nel ratto lo studio di questo recettore è stato reso difficile dalle basse concentrazioni nel cervello. La stimolazione nei mammiferi dei recettori H2 presenti nella corteccia cerebrale e nell’ippocampo produce eccitazione mediante l’inibizione della conduttanza del potassio attivata dal Ca2+.

Qianyi Ma e colleghi, studiando l’espressione dei recettori H2 da parte dei neuroni glutammatergici, hanno rilevato una ridotta espressione con conseguente deficit funzionale recettoriale in questo tipo di neuroni nella corteccia prefrontale mediale (mPFC, da medial prefrontal cortex) del cervello di pazienti diagnosticati di schizofrenia. Questo deficit dovrebbe determinare una riduzione di frequenza di scarica del glutammato che si lega ai recettori NMDA dei neuroni post-sinaptici, mediando processi di ritenzione di tracce, di potenziamento a lungo termine e altri fenomeni connessi con la working memory necessaria ai numerosi e vari processi cognitivi propri della nostra vita di relazione.

Su questa base, i ricercatori hanno impostato una sperimentazione animale per verificare gli effetti selettivi dell’ablazione, prima del gene e poi della molecola, del recettore istaminico sul funzionamento dei neuroni corticali rilascianti glutammato e sulle funzioni corticali e cognitive dipendenti dall’attività di queste cellule eccitatorie.

In topi con knockout selettivo per il gene Hrh2 del recettore H2 nei neuroni glutammatergici della mPFC, individuati come CaMKIIα-Cre; Hrh2fl/fl, si inducevano fenotipi “schizofrenia-simili” così schematizzabili: 1) deficit di gating sensomotorio, 2) aumentata suscettibilità all’iperattività, 3) ritiro sociale, 4) anedonia, 5) compromissione della working memory, 6) ridotta attività di scarica dei neuroni glutammatergici corticali, specificamente della mPFC, nei test elettrofisiologici in vivo.

Dopo questo risultato del knockout selettivo del gene, Qianyi Ma e colleghi hanno verificato l’effetto del knockdown selettivo della molecola recettoriale H2 nelle cellule nervose rilascianti glutammato della mPFC murina: hanno nuovamente rilevato i fenotipi elencati nei sei punti precedenti che, nel loro insieme, si considerano un equivalente murino del disturbo schizofrenico umano.

Lo stesso esperimento di knockdown selettivo è stato ripetuto per i neuroni glutammatergici dell’ippocampo, ma questa volta non sono apparsi i fenotipi simil-schizofrenici.

I ricercatori a questo punto hanno condotto uno studio elettrofisiologico per cercare di individuare il meccanismo che determina nei neuroni glutammatergici della mPFC la riduzione dell’attività di scarica, ovvero dello sviluppo di picchi di potenziali, quando si ha deficit dei recettori H2. L’osservazione sperimentale ha evidenziato che, senza quei recettori dell’istamina, la riduzione dei potenziali d’azione nei neuroni glutammatergici si aveva per effetto dell’incremento della corrente attraverso i canali attivati dall’iperpolarizzazione e regolati dal nucleotide ciclico.

Qianyi Ma e colleghi hanno poi applicato i risultati ottenuti a un noto modello murino di schizofrenia, cioè il topo MK-801-indotto, attraverso l’iper-espressione di H2 nei neuroni glutammatergici della mPFC e poi mediante l’impiego di agonisti recettoriali per gli H2 nelle stesse cellule nervose corticali: in entrambi i casi si aveva una significativa riduzione del fenotipo schizofrenico del modello.

Nell’insieme, questi risultati suggeriscono la possibilità che il deficit di H2 nei neuroni a glutammato della mPFC agisca da cardine o innesco patogenetico per il disturbo schizofrenico, e che gli agonisti dei recettori H2 possano essere presi in considerazione come nuovi potenziali farmaci per il trattamento della psicosi o, addirittura, per prevenire un completo sviluppo della patologia con un intervento precoce.

Questo studio può anche essere considerato in funzione delle evidenze che supportano la convenzionale ipotesi del glutammato nella patogenesi della schizofrenia e forniscono un contributo agli studi finalizzati alla comprensione del ruolo dei recettori H2 dell’istamina nel cervello e, in particolare, nei neuroni glutammatergici.

Per parte nostra, attendiamo il prosieguo degli studi per valutare la reale portata di questi risultati per la comprensione della patogenesi di tutte quelle condizioni che includiamo nella categoria clinica dei disturbi schizofrenici.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-04 marzo 2023

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Nel midollo spinale abbondano invece gli interneuroni inibitori glicinergici.

[2] Si vedano le discussioni su questo argomento nelle recensioni di Giovanna Rezzoni.

[3] Sulla storia delle origini della diagnosi di schizofrenia e sull’evoluzione del concetto in psicopatologia vi sono numerosi riferimenti negli scritti pubblicati nelle “Note e Notizie”; nella sezione “In Corso” sotto il titolo “La concezione dei disturbi mentali nella storia” si può leggere una cronologia che, in brevissime sintesi concettuali, elenca l’evoluzione che si è avuta nel concetto di malattia mentale dalle prime tracce scritte, risalenti al 3400 a.C., fino ai giorni nostri.

[4] Le nozioni storiche riportate di seguito sono tratte da una relazione del nostro presidente; per le indicazioni bibliografiche complete si veda in Silvano Arieti, Interpretazione della Schizofrenia, in 2 voll., Feltrinelli, Milano 1978.

[5] Ai coniugi Vogt è intitolato un istituto di ricerca nel quale è esposta un’interessante collezione di cervelli. Oskar Vogt divenne celebre per lo studio del cervello di Lenin, nel quale rilevò cellule piramidali giganti della corteccia di dimensioni notevolmente superiori alla media.

[6] Sicuramente una parte non trascurabile in questa evoluzione l’hanno avuta i numerosi istituti di ricerca che hanno dedicato le proprie attività alla ricerca di correlati neurobiologici dei disturbi mentali e le riviste, come Molecular Psychiatry, che hanno consentito la diffusione della conoscenza di risultati che hanno modificato dei punti di vista che resistevano da decenni.

[7] Note e Notizie 16-11-19 Trattamento cognitivo della schizofrenia. Si veda anche: Note e Notizie 07-12-19 Differenze in S100b tra persone affette da schizofrenia.

[8] Note e Notizie 17-03-21 Alterata funzione del talamo nella schizofrenia.

[9] Note e Notizie 03-07-21 Talamo anteriore nei difetti cognitivi di autismo e schizofrenia.

[10] Note e Notizie 27-02-21 Il deficit cognitivo della schizofrenia è legato alla disbindina. Si veda anche lo studio maggiore sui rapporti fra geni associati alla schizofrenia e volume delle aree cerebrali sottocorticali: Note e Notizie 20-02-16 Influenze genetiche su schizofrenia e volume sottocorticale. Per i rapporti con la morfologia si veda anche: Note e Notizie 21-11-15 Nella schizofrenia la normale asimmetria emisferica è ridotta e alterata e Note e Notizie 14-02-15 Segni di schizofrenia che precedono i sintomi per una diagnosi precoce.

[11] Note e Notizie 20-03-21 Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo. Per questa patogenesi si legga il testo integrale dell’articolo.

[12] Note e Notizie 16-02-19 Nella schizofrenia la microglia riduce le sinapsi.

[13] È evidente la costruzione deduttiva da dati e inferenze precedenti. Quando è stato proposto il modello, il campo di studi della fisiopatologia della schizofrenia era ancora dominato dall’ipotesi dell’iperfunzione dopaminergica, desunta dall’azione anti-dopaminergica di fenotiazinici, butirrofenonici e altri neurolettici di prima generazione efficaci nel ridurre deliri e allucinazioni degli schizofrenici. Negli ultimi venti anni si è consolidata l’evidenza della partecipazione di tutti i sistemi trasmettitoriali alla fisiopatologia, con una prevalenza di interesse anche farmacologico per i sistemi neuronici a segnalazione glutammatergica.

[14] Note e Notizie 20-03-21 Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo.